giovedì 7 aprile 2011

pulse#160: James Blackshaw (UK, Young God) DO 10.04.2011 @ La Mela di Newton, PD

A.S.U. in collaborazione con la Mela di Newton presenta:
Pulse#160

James Blackshaw
(Young God, UK)


[ fingerpicking-intense raga-folk for 12-string acoustic guitar ]

http://www.myspace.com/jamesblackshaw


Domenica 10 Aprile, h. 21.00 @ La Mela di Newton
Via della Paglia, 2 - Padova


Nemmeno trentenne, James Blackshaw è stato molto prolifico sin dalla sua prima apparizione su disco nel 2004, a soli 23 anni.
Al momento vi sono almeno 15 uscite a suo nome - tra suoi dischi solisti, split o collaborazioni, o, come "The Garden of Forking Paths", in cui appare nel ruolo di curatore.
Negli anni ha suonato/collaborato con: Michael Gira/Swans, Current 93, Marissa Nadler, Nancy Elizabeth
Un tratto comune a tutte le uscite è una sorprendente commistione di destrezza tecnica e passione, e l'impressione è che tutto ciò che entri in contatto con lui sia illuminato in profondità dal suo spirito indagatore.
Lo stile di Blackshaw- uno studio ipnoticamente fluido e intricato della chitarra a 12 corde - è quello proprio dell'esplorazione attraverso l'iterazione e la ripetizione tipica di certo minimalismo, e anche se è un (non così) lontano parente della vecchia scuola Takoma di fingerpicking (maestri quali Robbie Basho e John Fahey), le sue tracce sono infatti forse più assimilabili a compositori moderni e sperimentali come Morton Feldman, Steve Reich e Charlemagne Palestine.
I suoi pezzi, anche i più lunghi, sono totalmente coinvolgenti e la loro
struttura è spesso caratterizzata da complesse architetture compositive, atte ad indurre l'ascoltatore in uno stato di beatitudine e rapimento, sempre pervase da un senso di devozione quasi monacale alla causa. Quale? Verrebbe da dire quella della musica strumentale trascendentale.
Michael Gira ha definito il suo brano
"Arc" da "The Glass Bead Game", "one of the most thrilling pieces of music I've heard in years".
Amen.

Più sotto
qualche video e un'ottima monografia su di lui, tratta da Ondarock

James Blackshaw - Past Has Not Passed from warren on Vimeo.










James Blackshaw su Ondarock


James Blackshaw è un dono di Dio. Non so se capite, uno di quei doni rari, preziosi, che hanno la capacità di riconciliarti con la musica. Una forza tranquilla nelle vesti di un ragazzo appena venticinquenne. Suona la chitarra il giovane James - una dodici corde per la precisione - allo stato dell'arte per quanto concerne fingerpicking, primitivismo folk e dintorni, cosicché quando quel suono fluisce armonioso, pare di staccarsi dal suolo, di entrare in un modo variopinto ove è annullata ogni referenza alla materialità delle cose. Sì, musica per sognare.

È giovane James, dicevamo, eppure ha il mestiere di un veterano, e una corposa dose di genialità. Certo, la sfida si presenta impervia. Rinnovare canoni stilistici scolpiti nella roccia dai virtuosi della Takoma School è operazione complicata, d'altro canto quasi nessuno v'è riuscito nel corso degli ultimi anni. Quasi. Potrebbe anche darsi che ciò non corrisponda ai suoi obiettivi, al suo essere artista, e comunque sarà il tempo a stabilirlo.
Non disconosce l'influenza dei Fahey e dei Basho, sui cui dischi afferma di essersi formato, ma allo stesso tempo si dice ispirato dalla contemporanea e dalla musica carnatica, da quel senso di ascetica religiosità che è nelle corde di un Arvo Part così come nei suonatori di Rudra Veena. Per non parlare del minimalismo, con Reich e Palestine nella testa e nel cuore. Ed è in questo che la musica di Blackshaw si scopre fascinosa se non originale, ovvero nel sincretismo di linguaggi sicuramente attigui, ma che raramente avevano trovato così eufonica mescolanza.

Ah, dimenticavo, il ragazzo nasce in Inghilterra, a Bromley (nei dintorni di Londra) per la precisione, particolare non di poco conto, perché anche Steffen Basho-Junghans non è di nazionalità americana... il suo "Waters In Azure" è indiscutibilmente uno dei capolavori del genere. Che la visione periferica dei due costituisca un vantaggio rispetto al retaggio geografico/semiologico che inevitabilmente si riverbera sui musicisti a stelle e strisce? In un certo senso, ciò viene confermato dall'interessato nelle quattro chiacchiere che abbiamo scambiato con lui, e che potete leggere nell'apposita sezione.

Comunque sia, Blackshaw comincia abbastanza presto a misurarsi con la musica, suonando rock, noise, punk, finché un amico non gli dona la folgorazione (a 16 anni), ossia "The Dance Of Death And Other Plantation Favorites" di John Fahey. Passa qualche tempo, quindi nuovi ascolti di materiale faheyano lo convincono definitivamente che il suo futuro è nel fingerpicking, nelle accordature aperte, in due parole, nel primitivismo folk.
Oggi è considerato, a ragione, uno dei più grandi talenti in circolazione. A confermarlo una serie di dischi stupendi, il rispetto dei colleghi e un'attività live al fianco di nomi importanti della scena folk contemporanea. Basti solo citare Sir Richard Bishop, Espers, Jack Rose, Glenn Jones, Sharron Kraus, Simon Finn, Marissa Nadler, Alexander Tucker, Josephine Foster.

Pare che Campbell Kneale di Birchville Cat Motel si sia letteralmente entusiasmato nell'ascoltare il giovane virgulto. Così la sua prima release, Celeste (agosto 2004), esce in cd-r , 80 copie, su Celebrate Psi Phenomenon, per essere poi ristampata da Barl Fire Recordings nel giugno 2005, in sole 100 copie. Male (per la bassa tiratura ovviamente), perché il disco è un'autentica epifania. Ascolti, brillano gli occhi tant'è la bellezza, e ti stupisci che un ragazzo così giovane, allora ventunenne, sia in grado di suonare in modo così paradisiaco. L'album consta di due pezzi di circa 14 minuti ciascuno. Il primo si serve del classico idioma faheyiano - il Fahey di "America" - in un saliscendi d'intensità spasmodica. La seconda composizione introduce quella che sarà la novità più importante per quanto attiene lo stile di Blackshaw, ossia una sorta di sperimentazione sulla drone music, o meglio sulla sua integrazione in grammatiche folk-oriented.

Segue a poca distanza Lost Prayers & Motionless Dances a ricalcare le modalità di "Celeste parte 2". Il disco si compone di una sola lunga suite progressiva, in cui si alternano costruzioni minimaliste e rumorismi assortiti, sempre nobilitati dal tocco delicato di Blackshaw, che stavolta riferisce un mood maggiormente meditativo. Edizione limitata anche in questo caso, 200 copie, Lost Prayers & Motionless Dances esce su Digitalis Industries.

Passo successivo è la pubblicazione, nel 2005, di uno split con il collettivo Davenport, in cui il nostro si esprime secondo forme molto vicine all'improvvisazione. Nel novembre dello stesso anno, ancora su Digitalis Industies, Sunshrine, a tutt'oggi il suo lavoro forse meno convincente, ma non per questo meno gradevole. Manca forse quella volontà di andare oltre, e che bene o male avevamo riscontrato nei tre dischi precedenti. Certo, la lunga title track mostra diverse sfaccettature tra suoni di harmonium, farfisa e quant'altro, mentre la tecnica impeccabile di Blackshaw mette la classica pezza su un momentaneo vuoto di creatività, sfornando melodie cristalline.

Ma è tempo di consacrazione, che arriva puntualmente nel 2006 con il bellissimo O True Believers, che a parere di chi scrive rappresenta quanto di meglio si possa ascoltare al momento in ambito fingerpicking. Il ragazzo dimostra di aver sviluppato una ragguardevole padronanza dello strumento, le tracce si susseguono quasi come fosse un tutt'uno, un unico magma indistinguibile di note celesti. Nonostante il buon James dica il contrario, O True Believers ci pare un lavoro dal suono malinconico, a tratti persino dimesso, come se lo spleen bashoiano fosse completamente e definitivamente entrato nell'anima del chitarrista inglese. E' un album che vive di addizioni progressive, come nella notevole title track, e che sin arricchisce man mano di arrangiamenti quasi floreali. E altrettanto nella seconda traccia "The Elk With Jade Wyes", con tanto di raga indiano a insaporire il piatto.

E poi? E poi l'ultimo nato, The Cloud Of Unknowing, di cui trovate una trattazione più o meno approfondita nella sezione recensioni, che si mantiene su livelli ancora una volta altissimi. Che la rivoluzione nel solco della tradizione passi anche dal talento di James Blackshaw?

Un anno dopo Blackshaw torna con Litany Of Echoes, ma stavolta è una parziale delusione.
Per una "Gate Of Ivory" e una "Gate Of Horn" in pianistico levare, che chiamano in causa nientemeno che la "continuous music" di Lubomyr Melnyk, e che fanno sperare in qualcosa di diverso dal solito, per il resto dei pezzi, Blackshaw si limita a svolgere il compitino. Perché tra la musica del chitarrista inglese e la musica ripetitiva e/o minimalista vi è una liaison nemmeno tanto nascosta, indi per cui dopo l'ascolto delle succitate composizioni speravo sinceramente in uno spostamento verso quei suoni e quelle metodologie compositive, mentre "Echo And Abyss", "Infinite Circle" e "Shroud", per quanto godibili, non deviano granché da ciò che possiamo ormai definire "canone blackshawiano".
Allora "Litany Of Echoes" è un'occasione sprecata per andare oltre il già sentito. Un album "minore", ma tuttavia godibile, soprattutto se lo si guarda in maniera a-critica e ci si lascia trasportare dalle emozioni che è comunque in grado di regalare. Perché alla fine della fiera una "Past Has Not Passed" non tutti sono in grado di scriverla.

L'ultima arditezza, quella relativa all'implementazione di strumenti ad arco e piano minimalista in Litany Of Echoes (2008), è la diretta referente del Glass Bead Game. Blackshaw suona ormai sempre più orchestrale, al punto che "Cross" è un concerto per chitarra e accompagnamento d'avanguardia, "Fix" e soprattutto i 19 minuti di "Arc" flirtano con i lied post-romantici da camera, e "Bled" sta a due passi dal preludio-fuga Bach-iano.
Al debutto per una compagine di grido (la Young God del guru Michael Gira), il londinese Blackshaw (classe 1981) alza il tiro. L'impostazione è quella delle grandi occasioni: non solo improvvisa, stavolta pure dirige, carica gli accenti, arrangia altisonante. Il rischio di pasticciare tutto con la pomposità neo-classica lo segue dappresso per tutta l'opera, "Key" compreso, con una tragicomicità non molto volontaria.

In stretta linea di continuità si colloca il successivo All Is Falling, più che un album nel senso proprio del termine, un'elegia di tre quarti d'ora, ripartita in otto parti prive di titolo, che contrassegnano altrettanti momenti di un flusso sonoro omogeneo nella resa complessiva, eppure conformato a molteplici sfaccettature.
Improntato a un tema "apocalittico", coerente con il recente connubio tibetiano, All Is Falling presenta un continuum di mood e fisionomia compositiva, nel quale Blackshaw si lascia andare a qualche virtuosismo su tempi serrati, agevolati, a quanto pare, da una minore tensione delle corde e da una diversa posizione delle dita che le fanno vibrare con maestria. L'artista inglese dimostra tuttavia ancora una volta non mera tecnica fine a se stessa, ma un'ispirazione destinata da un lato a tracciare arpeggi e incastri strumentali coinvolgenti e dall'altro ad ampliare uno spettro sonoro dal quale traspare la complessità del puzzle di snodi strumentali e di attitudine sottesi ai passaggi tra le sue varie parti, Un passo ulteriore lungo la via del completamento artistico di un musicista ormai sempre più proteso verso la dimensione di compositore a tutto tondo, rispetto alla quale quella di cristallino performer della dodici corde risulta ormai accessoria e del tutto riduttiva.

Contributi di Michele Saran ("The Glass Bead Game") e Raffaello Russo ("All Is Falling")

http://www.ondarock.it/songwriter/jamesblackshaw.htm



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